Google non ha vinto la corsa all’IA per colpa del lavoro da casa. Anzi, no

C’è un detto in inglese: “do as I say, not as I do”; “fa’ come dico, non come agisco”. Che più o meno è equivalente a “predicare bene, razzolare male”. Il punto di partenza inglese è però importante, perché è sicuramente noto alle società della Silicon Valley che ci raccontano costantemente come i loro strumenti permettano a noialtri di lavorare da casa come fossimo in ufficio, e poi impongono ai propri lavoratori di andarci costantemente. O, come nel caso di Eric Schmidt, ex-CEO di Google, affermano che il motivo per cui non riescono a competere con altre aziende è per via del troppo lavoro da casa. Salvo poi rimangiarsi quanto detto.

Eric Schmidt dà la colpa al lavoro da casa per i ritardi di Google

Ne abbiamo sentito parlare più volte: l’arrivo di ChatGPT ha gettato Google nel panico. Quello che sembrava un futuro lontano s’è materializzato nel presente e il gigante della ricerca non aveva pronta una risposta, lasciando così campo libero a OpenAI e a Microsoft, suo principale partner e sponsor.

In un intervento di fronte ai laureandi dell’Università di Stanford, Eric Schmidt ha fatto diverse affermazioni riguardo l’impatto del lavoro da casa sulla capacità di Google di competere nel campo dell’IA. Nel video, che è stato ora reso privato dietro richiesta dello stesso Schmidt, egli afferma che “Google ha deciso che l’equilibrio tra lavoro e vita privata, l’andare a casa presto e il lavoro da casa fossero più importanti di vincere. La ragione per cui le startup funzionano è perché la gente lavora come matti. […] Se voi tutti lasciate l’università e fondate un’azienda, non non potrete lasciare che si lavori da casa e che si vada in ufficio un giorno a settimana se vorrete competere con le altre startup.” Val la pena notare che dal 2022 Google ha istituito una presenza obbligatoria in ufficio di tre giorni a settimana.

Dopo aver chiesto la rimozione del video, Schmidt ha scritto al Wall Street Journal per dire che “ho commesso un errore parlando di Google e dei suoi orari di lavoro e me ne scuso.”

Il sindacato Alphabet Workers Union, che rappresenta oltre 1.000 lavoratori dell’azienda tra Stati Uniti e Canada, ha scritto su Twitter/X che “l’organizzazione flessibile del lavoro non lo rallenta. La carenza di personale, le priorità in costante mutamento, i costanti licenziamenti, le paghe stagnanti e il fatto che i manager non portino a termine i progetti sono i fattori che rallentano i lavoratori di Google tutti i giorni.”

A sostegno di quanto affermato dal sindacato, Atlassian è solo una delle molte aziende che hanno deciso di non imporre un ritorno in ufficio, con risultati promettenti per quanto riguarda non solo la soddisfazione dei propri lavoratori e la facilità di attrarre e trattenere le persone più competenti, ma anche nella produttività.

Com’è noto, predicare bene è facile; razzolare altrettanto bene, invece, è ben più difficile. Resta, però, il dubbio: perché chi fornisce gli strumenti per lavorare da remoto non se ne fida abbastanza da usarli per le proprie attività?