Black Panther: Wakanda Forever, quando la morte reale irrompe del sogno di Marvel. La recensione

Black Panther non c’è più, nel mondo reale come anche in quello ”marvelliano”. La scena con cui si apre il secondo capitolo di Black Panther è proprio quella in cui la sorella Shuri (Letitia Wright) si colpevolizza per non aver potuto salvare il fratello, e non è un caso che il film abbia inizio proprio da lei. Sì, perché è proprio su di lei che il regista Ryan Coogler pesa la coralità del racconto di questo Wakanda Forever e proprio lei sarà la vera protagonista per tutto il film. Bastano poche scene per capire che non sarà il solito film di Marvel, quasi a rimarcare il fatto che anche nel mondo fantastico dei supereroi si può morire e può succedere che questo avvenga in silenzio con una dignità che spetta a chi ha combattuto per tutta la vita contro i nemici. 

Qui, lo sappiamo, T’Challa non c’è più e non c’è più nemmeno il suo interprete Chadwick Boseman e questo, come argomentato dai regista, ha condizionato l’intero capitolo portando il film verso una direzione che è ben diversa da quella inizialmente immaginata da chi lo stava scrivendo prima della morte dell’attore. Ed è forse un film ”omaggio” quello scritto e diretto da Ryan Coogler, una profonda riflessione sulla morte e sull’eredità di un uomo, di un re, di un fratello ma anche di un sovrano che non c’è più e che seppur supereroe ha dovuto fare i conti con la morte anche nel mondo dove non sembra possibile morire. 

Il film fa capire che Chadwick Boseman è in qualche modo insostituibile. Il primo Black Panther era stato un successo mondiale, un fenomeno di costume che aveva creato un mondo afrofuturistico capace di divenire anche un simbolo di orgoglio nero al di fuori degli USA. Il saluto a T’Challa è anche e soprattutto un saluto a Chadwick Boseman, morto per un male incurabile a soli 44 anni. Il dolore che ha colpito tutto il cast ma anche i fan si è in qualche modo trasformato in Wakanda Forever, in un racconto sì, pieno di azione e di battaglie socio politiche con effetti speciali potenti, ma anche di pensiero, di un sentimento e con scene in cui è facile lasciarsi trasportare e far cadere una lacrima soprattutto in chi ha veramente amato Black Panther. 

Ed è stato giusto, a nostro parere, non intraprendere la via della sostituzione di Black Panther: nessun uomo o nessun interprete avrebbe mai trovato la giusta collocazione così come l’aveva trovata Boseman. Ecco allora l’idea di considerare una protagonista con il suo stesso dna e capace di rendersi Black Panther quasi quanto T’Challa ma con una forte predominanza femminile

La sfida del dopo T’Challa contro il cattivo venuto dal mare

Nel film si intrecciano due piani narrativi: quello dei contrasti socio-politico-militari e quello dell’emotività che si sviluppa con i personaggi legati a T’Challa e al mondo di Wakanda. Chiaramente i due piani si intrecciano e il cammino della protagonista Shuri non fa che portare alla consapevolezza del suo ruolo nel mondo di Wakanda. Non c’è più l’erba a forma di cuore che Killmonger nel primo capitolo aveva bruciato completamente una volta salito al trono per non avere più nuovi Black Panther, ma Wakanda resta forte e unita sotto la guida della regina Ramonda (interpretata magnificamente da Angela Bassett) che ancora una volta vieta politiche d’embargo sul Vibranio, il minerale simbolo di Wakanda ma anche vero gioiello attrattivo di tutti gli stati nel mondo. 

Ed è facile scoprire come Wakanda Forever diventi un film a guida femminile pronto a valorizzare nel giusto e senza retorica il ruolo della donna in una società, anche marvelliana, prettamente maschile. Il regista e scrittore lo fa in modo inattaccabile con attrici e protagoniste di qualità che meritano rispetto sia per il loro ruolo come anche per la loro grande capacità di creare personaggi non ridondanti ma anzi pieni di verità e facilmente amabili. 

Si passa dalla madre regina Ramonda che si innalza, probabilmente ‘’grazie’’ all’assenza del protagonista Boseman, a vera madre di Wakanda in un aspetto che sa non solo di madre ma anche di sovrana. C’è Shuri, sorella e scienziata, che rimarca il suo passato e pensa al fratello morto e di cui è incapace di superare la morte. Ancora Okoye (Danai Gurira) che incarna perfettamente quello spirito guerriero tipico marvelliano ma anche un po’ reale. E poi c’è Nakia (la bellissima Lupita Nyong’o) compagna fidata per tutti. Tutte figure femminili che non fanno altro che dare spessore al film senza esagerare. 

In questo mondo di figure femminili si inserisce Namor e il suo popolo di Talokan che viene ideato da Ryan Coogler con luci e ombre. Da una parte l’idea di un popolo che vive negli abissi è poco originale ma ben congegnato soprattutto nel mondo di Marvel. C’è personalità nel suo re come anche nel suo popolo ma c’è poco dettaglio nei caratteri dei natanti/mutanti, sicuramente voluto, con un approccio più reale e dunque più cupo negli ambienti della cittadina sommersa di Talokan. Peccato però per questo aspetto che non viene approfondito così tanto da permettere di far risaltare la durezza e la prepotenza di Namor nella battaglia contro Wakanda. Sì, perché senza proferire a spoiler, sappiamo bene che Namor e il popolo di Talokan cercherà di contrastare Wakanda e Shuri in una battaglia che risulterà potente e con effetti speciali che sono tipici di un film Marvel soprattutto in un crescendo improvviso, intervallato anche da situazioni comiche tipiche dei personaggi e del regista. 

Namor è possente, esteticamente e fisicamente, come anche i suoi talokiani che nell’insieme funzionano bene creando da subito la figura del nemico pronto a vincere e lasciare sul campo vittime senza curarsene. Namor è il K’uk’ulkan ossia il ‘’dio serpente alato’’ e lo è davvero con ali ai piedi e il dono dell’immortalità che gli permettono velocità supersoniche sott’acqua e fuori acqua con attacchi mirati terribili da subire per gli avversari. Namor è senza dubbio il vero antagonista di Shuri e di Wakanda: è un personaggio ambiguo che sa fare l’aggressivo oppure l’ammaliatore quando serve e nella giusta circostanza. Merito sicuramente dell’ottima interpretazione di Tenoch Huerta che riesce a indirizzare il giusto messaggio finale allo spettatore. 

Il sequel è lungo (forse troppo), sono oltre 2 ore e 40 minuti di una sceneggiatura un po’ poco curata nei dettagli, e lo si capisce con il mondo di Talokan come anche con le battaglie forse un po’ troppo banali. Gli effetti speciali però ci sono e il combattimento finale è possente, carico e anche un po’ classico come vuole lo spettatore di un cinecomic Marvel. Ad impoverire è la parte centrale che non ha lo stesso peso dell’incipit come anche del finale di grande impatto soprattutto emotivo. 

Ed è proprio il finale così tanto emotivo a rendere il sequel Black Panther: Wakanda Forever un film toccante che forse si allontana dal consueto registro delle produzioni di Marvel Studios. Ma è comunque un sequel solido, onesto e fortemente contemplativo che forse molti non si aspettavano ma che porta il film su di un piano più realistico pur mantenendo quell’alone di fantastico che tutti i fan del mondo Marvel vogliono comunque vedere e sentire. Le esaltanti musiche aiutano in tutto questo e oltre al sonoro c’è anche un montaggio ben congegnato che permette di seguire la storia lunga e articolata che forse avrebbe avuto bisogno di almeno uno o due film in più per essere meglio digerita. 

Black Panther: Wakanda Forever suggerisce già nel titolo la volontà di dare una fine che sia l’inizio di qualcos’altro che passi da una rinascita e permetta di proseguire in una vita, vera o fantastica, che sia anche piena di ricordi.